Chissà perché, mentre arranco con i bagagli alla stazione Termini, mi viene in mente all’improvviso una di quelle canzoni popolari d’ante guerra. E’ un pensiero lampo, e come m’è venuta in mente me la dimentico, tanto che non saprei neanche dire quale era, ma da lì è una reazione a catena. Scansiono la direzione e punto dritto al binario 24 con figli e marito al seguito ma davanti mi ritrovo l’immagine del maestro Gullotta. E’ stato lui, quasi quarant’anni fa, ad insegnarmi la canzone.
Che grande cosa ascoltare i racconti di chi rammenta i maestri di vita, quelli che ti hanno mostrato una strada o impartito una lezione; chi ti ha regalato qualche briciola di filosofia oppure instigato un senso di fiducia; chi ti ha fatto credere in te stesso, oppure fatto capire da che parte andare. Io certi racconti non li potrei mai fare. Se ripenso a tutte le maestre, maestri, professori e professoresse che si sono susseguiti sulle cattedre della mia infanzia e adolescenza non me ne viene in mente neanche uno che appartenga a quella categoria. Forse sono stata sfortunata, chissà, tanto che me ne sono dovuta inventare uno in un romanzo, il vecchio Max, ecco là il vecchio saggio che tutti avremmo voluto incontrare. Invece no, a me è toccato il maestro Gullotta in quinta elementare. Di lui, oltre che a quella canzone che va e che viene nella memoria, ho un solo ricordo: quello di quel giorno in cui arrivato in classe emise uno sbadiglio, stese le gambe sulla cattedra e laconicamente disse: “regazzì, fate quello che ve pare che oggi nun c’ho voja de fa gnente.”
Mi sono dovuta ritrovare negli “anta”, tra gli affollati binari di una stazione, per afferrare il fulcro del vuoto lasciato da quell’uomo. E’ lì, racchiuso in quell’immagine di uno sbadiglio che comunica l’azzeramento, come se il futuro che gli stava davanti, la generazione che avrebbe dovuto educare, valesse l’impegno della nullafacezia. Poi i ricordi del maestro Gullotta si fermano lì, perché non è che in classe si presentasse spesso. C’era infatti la supplente quel giorno in cui ci lasciarono in piedi in fila lungo il corridoio senza lasciarci uscire. La campanella aveva suonato da un pezzo, ma nessuno si decideva. Tutti in fila come le belle statuine. Alla fine la supplente ci spiegò che avevano ricevuto la direttiva di tenerci a scuola, che fuori era pericoloso. “Hanno rapito Aldo Moro,” disse e io continuavo a non capire perché non potessi andare a casa.
A quel punto sono alla biglietteria, quattro biglietti per Fiumicino. E’ il termine della nostra vacanza. Roma mi ha avvolta nella sua bellezza, me la sono goduta come mai prima. Ma è una sirena che incanta ed è’ sibillina. Tra tutti i ricordi che poteva donarmi dei venticinque anni in cui ci ho vissuto, mi consegnia solo questi di quinta elementare: una canzone che sfugge, il maestro Gullotta con le gambe distese e il rapimento di Aldo Moro.
Mentre salgo sul treno cerco di afferrare un qualche senso da dare alle immagini, ma non lo trovo. Resta solo il fluire di sensazioni, fatuo e inafferrabile, poi il treno parte e di lì a due ore sono sull’aereo. Tempo di tornare al presente e di tornare a casa.